Federico Majorana dice di “soffrire un po’ della sindrome dell’impostore”. Di “non aver scelto di fare l’attore, ma di essere stato scelto”. E che “la recitazione è qualcosa di terapeutico”, che gli fa affrontare la timidezza e nascondere nel personaggio che interpreta una parte di sé.
Quattro anni fa ha debuttato nel cortometraggio J’Adore di Simone Bozzelli (premiato alla Settimana della Critica-SIC@SIC), ed è lì che ha iniziato a capire che la recitazione era la strada che voleva percorrere. Oggi il romano, 29 anni, ha già collezionato una serie di esperienze importanti, da Favolacce dei fratelli D’Innocenzo a Padre Pio di Abel Ferrara (attualmente nelle sale), fino a M. Il figlio del secolo, serie Sky Original diretta da Joe Wright, con protagonista Luca Marinelli nei panni di Benito Mussolini, girata anche negli studi di Cinecittà, che sarà presentata in anteprima alla prossima Mostra del cinema di Venezia.
Federico, cosa ha significato per te far parte di una produzione internazionale così importante?
È stata una grande esperienza, che mi ha fatto confrontare con una serie di attori che stimo molto. Ho avuto modo di poter guadare professionisti in azione e ‘rubare’ con lo sguardo. Anche lavorare a Cinecittà è stato interessante. Tra l’esterno e i teatri di posa, sono state ricostruite le vie di Milano e altri luoghi, che mi hanno fatto respirare l’atmosfera del grande cinema.
Nella serie interpreti un fascista.
Sono Amerigo Dumini, a capo della Ceka, la polizia segreta di Mussolini, un criminale che ha organizzato il rapimento e poi il delitto del deputato socialista Giacomo Matteotti. Ho cercato di trovare la giusta chiave per interpretare questo personaggio reale, che non è solo e semplicemente un cattivo. Ho cercato di trovare dei punti di connessione, non è stato un processo facile, volevo scavare anche nella sua umanità.
In Padre Pio, invece, chi sei?
Michele, un soldato che ritorna dalla Prima guerra mondiale e scetticamente inizia a prendere parte alle battaglie dei socialisti dell’epoca. Cerca di combattere al fianco dei braccianti. È stato interessante vedere due lati della stessa medaglia, visto che il film e la serie M sono ambientati nello stesso periodo storico. Io sono da sempre un fan di Ferrara e lavorare con lui è stato davvero qualcosa di speciale. Un bel traguardo.
Perché hai scelto di fare l’attore?
Più che altro penso di essere stato scelto. Da piccolo con mia sorella facevamo dei piccoli spettacoli dentro casa per la famiglia. Ho scoperto che mi piaceva recitare, giocando. Ma non pensavo di farne un mestiere. Ho studiato Arti e scienze dello spettacolo all’università La Sapienza di Roma. Ho iniziato a fare la comparsa sui set, per osservare da vicino come funzionava la macchina del cinema. Poi un giorno mi è capitato di fare un provino per J’Adore, il corto di Simone Bozzelli e da quel momento è iniziato tutto. Sono sempre stato timido e quella esperienza mi ha sbloccato, mi ha fatto tirare fuori quello che avevo dentro. E ha fatto dire a me stesso che potevo fare questo mestiere.
Dopo J’Adore, è arrivato Favolacce.
Mi ha scritto sui social Fabio D’Innocenzo per farmi fare un provino per il film. Mi era piaciuto molto La terra dell’abbastanza. Trovo i D’Innocenzo due autori molto forti. Quello è stato per me un secondo esordio. Ho potuto scoprire come funziona l’industria cinematografica, nonostante il piccolo ruolo. Ma ho potuto partecipare comunque a un processo di creazione del personaggio davvero interessante.
Fare l’attore, per chi ha la tua età, quanto è complicato?
Durante il Covid ho avuto molti dubbi. La pandemia mi ha messo in crisi, come è accaduto anche ad altri giovani che fanno il mio mestiere. Mi ha fatto porre delle domande. Ma ho capito che la recitazione è qualcosa che voglio approfondire sempre più, è una cosa che mi fa stare bene. Io sono timido e recitare mi permette di nascondere nel personaggio dei miei lati caratteriali, e questo lo trovo molto terapeutico. Oggi posso dire di essere più che soddisfatto del percorso che ho fatto.
Hai anche lavorato con Eleonora Danco quest’anno.
Soffro un po’ della sindrome dell’impostore. Quando mi hanno scritto i suoi assistenti per parlarmi dello spettacolo (Benvenute stelle), quasi non ci credevo. Non avevo mai fatto teatro, ma mi sono messo alla prova. Mi ha fatto scoprire questo mestiere in maniera più approfondita e decisa.
In futuro con chi sogneresti di lavorare?
In Italia con Alice Rohrwacher, che trovo una delle autrici contemporanee più talentuose. Ma sono anche appassionato dei film di Guy Ritchie. Sarebbe incredibile poter essere diretto da lui. Guardo al cinema in modo trasversale. Questo mestiere è una ricerca continua.
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