Epilogo cinese, ma per Kechiche cambia il regolamento


È forse l’epilogo più appropriato alla quarta e (almeno sulla carta) ultima Mostra del direttore sinologo Marco Müller. Il presidente della giuria Zhang Yimou, cinese, premia il collega Ang Lee, taiwanese, con il Leone d’oro per Lust, Caution. I critici fischiano e serpeggia il disappunto nella sala, ma il premio registra a chiare lettere una tendenza sempre più forte nel cinema mondiale: persino il prossimo film di Bernardo Bertolucci potrebbe essere prodotto al 60% dai cinesi. Pure l’anno scorso vinse un film cinese, Still Life di Jia Zhang-ke, che quest’anno ha conquistato il Premio Orizzonti Doc con Useless. Still Life era arrivato all’ultimo momento come film sorpresa e non l’aveva visto quasi nessuno. Lust, Caution invece è giunto al festival preceduto da una notevole fama: lussureggiante spy story in costume, ambientata nella Cina occupata dai giapponesi, a fine anni ’30, con scene erotiche ad alto tasso spettacolare, con divi orientali universalmente noti e bellissimi. Ha fatto subito notizia occupando le copertine con le sue immagini patinate, ma non è sembrato quasi a nessuno il film più bello, più indispensabile, di un concorso che ha fatto discutere e ha scosso toccando temi attuali e drammatici. Come la guerra in Irak, con Redacted di Brian De Palma e col “dimenticato” In the Valley of Elah di Paul Haggis. O le nuove forme di sfruttamento e marginalizzazione, il lavoro flessibile e quello interinale, la vecchia e la nuova immigrazione, con It’s a free World di Ken Loach e La graine et le mulet di Abdellatif Kechiche, che per molti resterà il Leone d’oro “morale”. Tutti titoli, tranne quello di Paul Haggis, non ignorati dalla giuria dei registi ma certamente ridimensionati a tutto vantaggio del taiwanese di Hollywood che ha portato a casa un secondo Leone d’oro appena due anni dopo la vittoria di Brokeback Mountain (anche Oscar per la regia). Un caso rarissimo ma non unico. Era già capitato proprio a Zhang Yimou, che vinse con Non uno di meno (1999) e con La storia di Qui Ju (1992), e prima ancora ai francesi André Cayatte e Louis Malle.
La giuria, come ha rivelato Ferzan Ozpetek, ha penato per quasi nove ore per sfornare il suo verdetto. Quasi peggio dei dodici di Nikita Michalkov. Li ha divisi soprattutto il Premio speciale della giuria, quello che poi si sono dovuti spartire il verismo vitale di Kechiche e il pop visionario di Todd Haynes, premi raddoppiati con il Mastroianni alla giovane interprete del film franco-tunisino e con la Coppa Volpi all’incredibile performance di Cate Blanchett, il più convincente tra i tanti alter ego di Bob Dylan messi in campo da I’m not there. Oltretutto ci è voluta una deroga alla regola che imporrebbe di assegnare un solo premio a ciascun film e senza possibilità di ex aequo (con tanto di riunione del cda della Biennale). Ma ancor più ha sconcertato la Coppa Volpi al pistolero crepuscolare Brad Pitt. Tanto inatteso (molti erano convinti che vincesse Casey Affleck) quanto assurdo se si paragona la sua performance a quella degli attori russi di 12 o al Tommy Lee Jones di In the Valley of Elah. Tacendo di Michael Caine in Sleuth. Leone d’argento a Brian De Palma per il sorprendente Redacted, uno dei film più importanti di questa Mostra; Leone speciale alla maestria di Nikita Michalkov, che con 12 ha radiografato la Russia contemporanea, girando quasi tutto il film in una palestra, ma inchiodando lo spettatore allo schermo per due ore e mezza.

Italia completamente assente. Già si sapeva: ci sarà da riflettere a mente fredda in attesa di vedere se andrà meglio con i film scelti dalla Festa di Roma, dove ritroveremo Cate Blanchett, in apertura, con The Golden Age.

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08 Settembre 2007

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