CANNES – Essere un personaggio pubblico – popolare, amato, rispettato – ha delle conseguenze. Lo sanno bene le star di Hollywood chiamate a schierarsi in continuazione e poi criticate per averlo fatto. Nell’epoca del politicamente corretto – e delle vuote polemiche – Tarik Saleh ci fa capire il privilegio di vivere in paesi democratici e laici, anche quando ci si trova ai vertici della piramide sociale.
Nel suo Eagles of the Republic, capitolo finale della Trilogia del Cairo presentato in Concorso al 78° Festival di Cannes, protagonista è George El-Nabawi, la più grande star del cinema egiziano, il “faraone dello schermo”. Dopo essere stato accusato per la sua vita privata (è separato e ha una relazione con una donna dell’età di suo figlio), per le sue posizioni ideologiche e per fare un cinema immorale lontano dai principi dell’Islam, è costretto ad accettare il peggior ruolo possibile: quello del presidente Al-Sisi in un film propagandistico atto a celebrarne la vita e le conquiste politiche. Si trova così stretto in una morsa in cui ogni scelta è quella sbagliata: da una parte tradire la sua integrità artistica, dall’altra mettere a rischio la sua vita e quella delle persone che ama. E se questo non bastasse, George si trova coinvolto in intrighi politici che lo vedono indirettamente protagonista. Un vero “campo minato” che deve attraversare a causa di un’unica colpa: essere il più bravo in quello che fa.
A interpretarlo troviamo uno straordinario Fares Fares, attore feticcio del regista, che in questa performance totalizzante è chiamato a mettere in scena un personaggio meta-cinematografico, le cui contraddizioni sono seconde solo a quelle del paese in cui vive. Inevitabile trovare in George uno specchio di Fares, soprattutto quando il personaggio si interroga sul suo ruolo di attore: le conseguenze della popolarità, la gestione del suo super-potere (la capacità di mentire meglio di chiunque altro) e la frustrazione di continuare a dire “parole che non sono sue”, “vivere emozioni che non gli appartengono”. Interrogativi che si accendono quando devono integrarsi con la condizione in cui si trova a vivere George, quasi più una spia che lotta per la sopravvivenza piuttosto che un artista.
“Eagles of the Republic è un film noir puro, proprio come Omicidio al Cairo. Al centro c’è una domanda esistenziale fondamentale: “Dovrei inchinarmi a questo sistema?’. – afferma Tarik Saleh – Il film è stato scritto pensando a Fares. Ha una straordinaria capacità di trasformarsi, ma non riceve alcun trattamento speciale. È semplicemente uno dei più grandi attori al mondo, e non è mai stato così bravo come in Eagles of the Republic.”
Attraverso il punto di vista originale di un artista indipendente che si trova di colpo vessillo del potere, il film ci fa scoprire le dinamiche di un governo autoritario, dove chiunque può essere arrestato o inserito in una lista nera per i più futili motivi, dove l’insabbiamento è all’ordine del giorno e l’omicidio di Stato una facile soluzione. Il ritratto offerto da Tarik Saleh è coraggioso e spietato, scegliendo di parlare dell’Egitto contemporaneo senza filtri, ma sfruttando soltanto la sua fantasia e malizia di cineasta. Quella creatività che rivendica lo stesso George, un attore “che non ha mai fatto un film brutto”, perché anche quando l’arte si piega al potere, sono i principi e i valori che scegliamo come persone a fare la differenza.
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