Donne in cella: il carcere femminile al cinema

Il carcere femminile, nella narrazione cinematografica, è più di un luogo: è un laboratorio emotivo, uno specchio deformante. Ecco i migliori racconti che l'hanno esplorato, a partire dal recente 'Fuori' di Mario Martone


Con l’uscita di Fuori di Mario Martone, il carcere femminile torna a essere centro vivo di una narrazione che mescola teatro, documento e verità poetica. Ma la prigione, quando abitata da donne, cambia funzione narrativa: non è solo spazio di punizione, ma laboratorio di identità, specchio sociale, corpo collettivo in tensione tra colpa e riscatto. Da questo punto di vista, la rappresentazione del carcere femminile nel cinema — e nelle serie — è un campo affascinante e poco frequentato, dove si riflettono mutamenti culturali, stereotipi resistenti e tentativi di scardinarli.

In principio era la colpa

In Il prigioniero della notte (Yield to the Night, 1956) di J. Lee Thompson, una straordinaria Diana Dors interpreta una donna in attesa dell’esecuzione. Il film, ispirato al caso reale di Ruth Ellis, ultima donna giustiziata nel Regno Unito, trasforma la cella in una soglia esistenziale. Non più carcere, ma purgatorio. Qui la questione morale è centrale: può una donna colpevole essere ancora degna di pietà? Il film risponde con un sì doloroso e profondamente umano.

Nella città l’inferno (1959) di Renato Castellani è uno dei primi film italiani a portare la realtà del carcere femminile al centro della scena. L’incontro tra la giovane ingenua Lina (Giulietta Masina) e la veterana Egle (una Magnani torrenziale e vibrante) diventa lo scontro tra due visioni del mondo: una che crede ancora nella bontà, l’altra che ha imparato a sopravvivere in un sistema corrotto. Rebibbia diventa così microcosmo sociale, dove la donna può scegliere solo tra la rassegnazione e la recita. Il film, tra neorealismo e teatro morale, è ancora oggi una delle analisi più lucide della trasformazione di un individuo sotto la pressione del carcere.

Una decina di anni in anticipo era uscita nelle sale americane una tra le opere più potenti e visionarie riguardo all’argomento: Caged (1950), arrivato in Italia con il titolo Prima colpa, di John Cromwell. Film  spesso citato come antesignano del women-in-prison movie.

La giovane Marie, incarcerata per complicità in una rapina finita male, affronta una lenta metamorfosi: da vittima a complice del sistema, attraverso soprusi, isolamento, perdita di umanità. Qui il carcere non è tanto struttura di detenzione, quanto di potere: gerarchie tra detenute, rapporti sadici con le guardie, annichilimento della volontà.

In pieno codice Hays, il film riesce a toccare temi scomodi con sorprendente durezza. Fu un’opera di rottura anche sul piano dei riconoscimenti: ricevette tre nomination agli Oscar (migliore attrice protagonista a Eleanor Parker, miglior attrice non protagonista a Hope Emerson, miglior sceneggiatura originale) e fu in concorso al Festival di Venezia, dove la Parker vinse la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. Il suo impatto fu tale da generare un remake nel 1962, Rivolta al braccio di Walter Doniger, solo parzialmente aderente all’originale, ma testimonianza della forza e della risonanza di un’opera pionieristica nel raccontare l’universo carcerario femminile.

La prigione come comunità

Questa intuizione viene ripresa, decenni dopo, dalla serie Orange Is the New Black (2013-2019), che si muove con straordinaria intelligenza narrativa tra commedia, denuncia e tragedia. Basata sul memoir di Piper Kerman, la serie di Jenji Kohan utilizza l’ingresso della bianca borghese Piper nella prigione di Litchfield per aprire una galleria di ritratti: donne nere, latine, trans, madri, tossicodipendenti, giovani e anziane, tutte con un passato che riaffiora attraverso episodi monografici. Ma la grande intuizione è questa: mostrare il carcere non solo come spazio di negazione, ma come luogo dove il legame, la solidarietà e l’identità diventano armi di resistenza.

La serie, distribuita da Netflix, è stata un fenomeno culturale globale: ha vinto numerosi premi, tra cui quattro Emmy, ed è diventata un simbolo della serialità corale e inclusiva degli anni Dieci. Ha dato visibilità a interpreti sconosciute, lanciato dibattiti su razzismo istituzionale, identità di genere e condizioni delle carceri statunitensi, fino a diventare un cult generazionale. Un carcere che si racconta attraverso le sue storie, e non solo i suoi muri.

Carcere femminile all’italiana

Le rose blu (1993) di Emanuela Piovano è una rarità del cinema italiano, ispirato a storie vere, in cui la narrazione si fa quasi diaristica. Le voci delle detenute non vengono ricostruite, ma raccolte e restituite con sensibilità documentaria. Il carcere diventa paesaggio mentale, fatto di piccole liturgie quotidiane, di emozioni sospese e gesti che assumono valore rituale. Piovano utilizza uno sguardo radicalmente femminile e non voyeuristico, sottraendo la rappresentazione delle detenute allo stereotipo della donna reclusa come corpo erotico o deviante. La dimensione collettiva della narrazione permette di attraversare storie diverse, accomunate da un senso di marginalità e di resistenza silenziosa. Un film che non racconta una storia, ma restituisce la condizione. E nel farlo, mette al centro il corpo: negato, spiato, ferito, desiderato, ma anche ricostruito attraverso la parola e la solidarietà.

Desiré (2023) di Mario Vezza, presentato nella sezione Panorama Italia di Alice nella Città, affronta con rara delicatezza il tema della reclusione giovanile, intrecciandolo con un percorso di formazione personale. La protagonista, interpretata con straordinaria autenticità da Nassiratou Zanre, è una quindicenne di origini senegalesi cresciuta a Napoli, perfettamente integrata nel contesto urbano ma sprovvista di radici solide. La sua marginalità non è solo sociale ma esistenziale: è una ragazza che si mimetizza, che cerca di sfuggire alla propria condizione passando inosservata nella notte. L’arresto, avvenuto quasi per caso nei vicoli della città, segna una frattura, ma anche un’occasione.

L’esperienza nel carcere minorile di Nisida si trasforma progressivamente in un terreno di consapevolezza. Inizialmente chiusa, ostile, Desiré entra in contatto con altre giovani detenute attraverso un laboratorio teatrale, guidato da un ex detenuto (interpretato da Enrico Lo Verso), che le assegna la parte di Amleto. Un ruolo in cui inizialmente non si riconosce, ma che diventa il riflesso di una condizione di incertezza e interrogazione esistenziale.

Il carcere qui non è spettacolo ma attesa, non è punizione ma potenziale. E l’attesa, come in un rito di passaggio, diventa rivoluzionaria. Non solo “fiction” ma anche molti documentari italiani sul carcere femminile, da Volere volare (2008) di Carla Garofalo a Senza di voi (2015) di Chiara Cremaschi, restituiscono una complessità affettiva e politica spesso trascurata.

L’universo oltre le sbarre

Il carcere femminile, nella narrazione cinematografica, è più di un luogo: è un laboratorio emotivo, uno specchio deformante, una lente d’ingrandimento sul corpo e sulla società. Ogni racconto — da quello epico a quello minimo — aggiunge una voce a un coro sommesso ma urgente. Perché, come diceva una detenuta in un documentario: “qui dentro non si finisce mai di cominciare”.

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25 Maggio 2025

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