Dogville, torna al cinema il capolavoro brechtiano di Lars von Trier. Dopo aver distribuito qualche mese fa i primi tre film del danese, L’elemento del crimine, Epidemic e Europa, Movies Inspired riporta nelle sale italiane altri tre titoli tra i più amati e controversi del suo cinema. Si tratta di tre uscite evento, della durata di tre giorni ciascuna, in edizione restaurata in 4K. Si comincia il 2, 3 e 4 giugno proprio con Dogville.
Presentato in concorso a Cannes nel 2003, Dogville è un film geniale, avanguardista, radicale. Nicole Kidman interpreta Grace, una donna in fuga da due killer che trova rifugio in una piccola comunità del Colorado. Gli abitanti di Dogville si offrono di proteggerla in cambio di piccoli lavoretti, ma l’accoglienza si trasforma presto in sfruttamento, poi in umiliazione, infine in sopraffazione. Ciò che inizia come un esperimento di altruismo si rivela un teatro della crudeltà.
Lars von Trier non è un regista da affrontare a cuor leggero. Ogni suo film è una discesa negli abissi della psiche, una provocazione che sfida lo spettatore a guardarsi dentro. Dogville, in tal senso, è forse la sua opera più estrema: cancella le pareti, disegna le case col gesso, rende visibile l’invisibile e costringe lo spettatore a osservare anche ciò che normalmente resterebbe fuori campo.
Vederlo al cinema oggi, vent’anni dopo la sua uscita, non è solo un’occasione per riscoprirne il rigore formale e la potenza narrativa, ma un vero e proprio test di sopravvivenza emotiva. Alla sua prima proiezione, molti spettatori abbandonarono la sala dopo pochi minuti. Altri rimasero, incapaci di staccarsi da quella rappresentazione spogliata, essenziale, che sembra teatro e invece è cinema allo stato puro.
Von Trier aveva già abituato il pubblico a opere atipiche e provocatorie come The Idiots o Dancer in the Dark, ma con Dogville si spinge oltre: cancella le pareti, disegna le case col gesso, rende visibile l’invisibile, costringe lo spettatore a vedere anche ciò che vorrebbe evitare. In questo spazio astratto e crudele si consuma la parabola di Grace, interpretata da una Nicole Kidman fragile e luminosa, vittima sacrificale e giudice supremo.
Dogville è un film che muta sotto i nostri occhi. Inizia come un’allegoria della bontà incompresa e finisce come una sentenza senza appello. Non è solo una storia su una donna e un villaggio: è un trattato di filosofia morale, un’indagine sul perdono e sulla giustizia, sul potere e sulla fragilità, sull’umano e sull’inumano.
E se all’inizio ci riconosciamo in Grace, nel suo desiderio di amare e comprendere, alla fine ci scopriamo forse più vicini al gesto che distrugge. Non perché giusto. Ma perché inevitabile.
Nel nostro presente fatto di polarizzazioni, culture della cancellazione, rivendicazioni e colpevolizzazioni reciproche, Dogville si staglia come un esperimento crudele ma necessario. Guardarlo oggi significa affrontare una domanda capitale: cosa rende giusto il perdono? E cosa lo rende, invece, complice?
In un tempo in cui il bene appare sempre più simile a una posa e il male a una necessità, il film di von Trier sviscera fino in fondo il dilemma morale della protagonista Grace: perdonare chi fa del male perché “non sa quello che fa” o distruggere quel male prima che contagi il mondo?
Nicole Kidman è icona e vittima sacrificale, corpo martirizzato e mente lucida, emblema di una purezza che a un certo punto si ribalta e si trasfigura in sentenza definitiva. Rivederla ora, in tempi di fragili certezze morali, è non solo consigliabile: è necessario.
Von Trier rinuncia a qualsiasi realismo scenografico. Le case sono disegnate a gesso sul pavimento nero, le pareti non esistono, gli oggetti sono ridotti all’essenziale. Lo spettatore è costretto a vedere tutto, anche ciò che normalmente sarebbe nascosto. Una scelta che non è estetica, ma etica: non c’è più spazio per lo sguardo selettivo. Tutto è visibile, tutto è giudicabile.
L’unico abitante di Dogville a salvarsi dalla furia purificatrice di Grace è Moses, il cane. Apparentemente un dettaglio marginale, ma in realtà un segnale chiaro: la bestia, priva di ipocrisie e maschere morali, è più degna della salvezza degli uomini. Una nota nietzschiana che rovescia la gerarchia classica tra umano e animale.
Paul Bettany non voleva interpretare Tom Edison: il film si girava in Svezia, troppo lontano, troppo strano. Fu Stellan Skarsgård, amico e attore feticcio di von Trier, a convincerlo: “Se rifiuti, ti perdi qualcosa di irripetibile.” Bettany accettò. Dopo settimane di riprese, chiese a Skarsgård quando sarebbe iniziato il divertimento. La risposta? “Ho mentito. Ma dovevi esserci. Dovevi capirlo da solo.” Bettany ha poi definito l’esperienza su Dogville come “orribile”. Non per il contenuto del film, che continua ad ammirare, ma per il metodo: “Lars non ti vuole come parte del processo creativo. Sei solo il suo burattino.” Ha ammesso di non aver mai visto il film, e di non avere alcuna intenzione di farlo.
Alla fine delle riprese, Nicole Kidman dichiarò che non avrebbe mai più lavorato con Lars von Trier. Rifiutò Antichrist nel 2009, ma i due rimasero in contatto. Nel 2012 fu annunciata nel cast di Nymphomaniac ma abbandonò per altri impegni. Un rapporto tormentato, come il film che li ha uniti.
Jennifer Kent, allora aspirante regista, scrisse a von Trier chiedendo di poter lavorare sul set di Dogville. Fu presa come runner. Dieci anni dopo, avrebbe firmato uno degli horror più potenti del decennio: Babadook. Da Dogville all’incubo. Ma senza dimenticare la lezione.
La celebre inquadratura a volo d’uccello che apre il film non è un semplice carrello: è un mosaico di 165 scatti fusi al computer. Il soffitto dello studio non era abbastanza alto per un’inquadratura unica. Ma il controllo totale di von Trier si estende anche all’aria sopra Dogville.
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