DOGVILLE CONFESSIONS


“Lars Von Trier ha aggiunto il ‘Von’ al cognome per far credere una nobiltà che in realtà non possiede” , dice una sarcastica voce off nel sorprendente documentario Dogville Confessions di Sami Saif, presentato al Mercato di Cannes.
Prodotto dalla Zoetrope, con cui Trier ha realizzato tutti i suoi film, compreso l’ultimo capolavoro à la Brecht in concorso a Cannes e in odore di Palma d’Oro, coprodotto anche dall’Italia, Dogville Confessions fin dal titolo dichiara i suoi intenti: quella di Trier è religione oltre che grande cinema, e il confessionale (a dire il vero più simile a una cabina per la sauna finlandese) non sfigura in un documentario che vuole svelare i misteri di un culto cinematografico.
Gli attori e alcuni dei collaboratori di Lars infatti, si infilano ripetutamente in un confessionale posto fuori dal set, nell’enorme studio svedese che ha ospitato per due mesi la troupe di Dogville. Ma non siamo al Grande fratello, e ognuno confessa il proprio straniamento di fronte a un progetto non sempre comprensibile, oppure la sensazione di non essere amati, come Lauren Bacall. Qualcuno si dichiara orgoglioso di far parte di quell’impresa, come Ben Gazzara. Fuor di metafora religiosa, il film esplora, utilizzando uno stile e una tecnica affini a quelli di Dogville, i segreti di un grande direttore di attori, trasformato in uomo-macchina da presa, avvolto dai cavi e sepolto da una steadycam che lo rende più simile a un astronauta che a un cineasta. Lo vediamo percorrere la scena iperteatrale in cui si muovono i suoi attori, dalla Grace (Kelly?) di Nicole Kidman, a un Ben Gazzara in stato di grazia, fino alla mitica Lauren Bacall, che certo in un gangster movie, sia pure alla Von Trier e sia pure non nel ruolo della dark lady, ci sta benissimo. Vediamo e ascoltiamo le nevrosi, i drammi, l’irritazione del regista nei confronti degli attori di cui a volte farebbe volentieri a meno, il disorientamento di molti di loro di fronte a un disegno tutto compreso nella mente di un filmaker il cui modo di agire fa ricordare Hitchcock o Orson Welles, insomma tutti i grandi che spesso hanno fatto soffrire molto gli attori. Mostra soprattutto che non c’è quasi separazione tra vita dentro e fuori dal set, costretti come sono tutti nella grande scatola del teatro di posa, e come in teatro a volte gli attori improvvisano.
Mostra la grande precisione tecnica della macchina-Dogville, in cui ogni frammento in movimento è controllato in regia su grandi e ipertecnologici monitor. “Lars è come un bambino ossessivo che gioca con tanti pupazzetti a tagliar loro la testa” – recita sempre la stessa voce off a un certo punto, mentre il regista gli risponde che fare questo film “è stato come andare sulla luna”.

autore
24 Maggio 2003

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