Da Praga a Pechino a caccia dell’Orso


BERLINO – Come spesso accade, le ultime cartucce sparate da un festival vanno a segno o almeno lasciano… un segno. È così anche in questa Berlinale, ricchissima sulla carta, ma all’atto pratico un po’ avara di quei momenti di grande cinema che ti restano negli occhi anche al ritorno a casa. Fa eccezione il grande affresco praghese del veterano Jiri Menzel, classe 1938, che per la quinta volta porta al cinema un romanzo di Bohumil Hrabal (con Treni strettamente sorvegliati ottenne l’Oscar nel ’66, mentre deve ad Allodole sul filo l’Orso d’oro che data al 1989). Adesso è la volta del celebre Ho servito il re d’Inghilterra. Trasformato (faticosamente, a dire del regista, che per diversi anni ha fatto quasi solo teatro) in una delle produzioni più costose della storia del cinema ceco e tra i film più applauditi del festival per la sua ironia, lo stile surreale e le tante invenzioni cinematografiche di cui il quasi settantenne regista condisce la biografia di un “omino”, un cameriere aspirante capitalista, dalle giovanili ambizioni di un provinciale all’arrivo nella grande città e all’ascesa sociale attraverso frustrazioni, speranze e rovesci di fortuna. Siamo nel cuore dell’Europa, e nel cuore della storia del Novecento, agli albori del nazismo che il personaggio di Jan Dite – manco a dirlo – riuscirà ancora una volta a cavalcare sposando una giovane nazionalista tedesca (la star di casa Julia Jentsch).


Un altro film molto atteso era Lost in Beijing della trentenne Li Yu, preceduto da un tentativo di censura ad opera delle autorità cinesi, che non hanno dato il visto alla pellicola per le scene di sesso molto realistiche e per l’argomento “immorale” oltre che scomodo. In una Pechino caotica e confusa, dove la faccia di Mao stride sulle banconote e le vecchie biciclette s’incrociano con le auto di lusso occidentali, i destini di due coppie – una giovane e povera, l’altra matura e benestante – convergono casualmente. Dopo che il boss di un centro massaggi ha approfittato della sua dipendente ubriaca, lei resta incinta, ma il marito, superata l’iniziale crisi di gelosia, accetta il fatto compiuto e addirittura decide di “vendere” il nascituro – si spera un maschio – al probabile padre, che dal suo matrimonio non ha avuto figli. L’autrice (al suo terzo film dopo Fish and Elephant e Dam Street) restituisce un quadro veramente spietato dei “nuovi valori” che muovono i suoi concittadini con una sensibilità particolare per la situazione delle donne, che sembrano considerate più o meno solo per il valore del loro utero. 

 

Terzo film della giornata, in attesa di Angel di Francois Ozon, che passerà domani, è Hallam Foe di David Mackenzie (che qui a Berlino aveva portato nel 2004 Follia tratto dal romanzo di Patrick McGrath). Giallo psicoanalitico tutto costruito addosso al giovanissimo Jamie Bell (Billy Elliott): il ragazzo, alla vigilia del 18° compleanno, non riesce a farsi una ragione della morte improvvisa della madre, che forse si è suicidata ma forse è stata fatta fuori dalla segretaria di papà, ansiosa di essere promossa padrona di casa. Hallam è asociale e intrattabile, spia la matrigna, ci va anche a letto insieme, poi scappa a Londra e trova impiego come sguattero in un grande albergo ma solo perché c’è un’impiegata che somiglia alla defunta mamma: spia anche lei, dai tetti con un binocolo, finché tra i due nasce qualcosa di “edipico”. Il regista, che si è ispirato a un romanzo di Peter Jinks, paragona il suo personaggio al Giovane Holden. Troppa grazia, ma il film è stato comunque applaudito dalla platea dei giornalisti.

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16 Febbraio 2007

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