Elias Koteas, Sean Penn, Sissy Spacek, John Savage, Arthur Penn, Sam Shepard, John Turturro, Ennio Morricone, Sergej Bodrov, Ben Chaplin. Sono solo alcuni dei nomi del cast stellare che compone Rosy-Fingered Dawn – Un film su Terrence Malick, documentario selezionato per i Nuovi Territori della Mostra del Cinema di Venezia 2002.
Mettendo insieme le loro testimonianze Luciano Barcaroli, Carlo Hintermann, Gerardo Panichi e Daniele Villa, giovani registi neppure 30enni, hanno realizzato il ritratto di uno tra i più enigmatici registi della storia del cinema: Terrence Malick. Una vera e propria leggenda vivente dentro e fuori Hollywood, nell’universo mainstream e in quello indipendente, autore in 30 anni di tre film divenuti cult come La rabbia giovane (1973) I giorni del cielo (1978) e La sottile linea rossa (1998).
I 4 filmakers (che insieme hanno realizzato diverse pubblicazioni per Ubu Libri) hanno anche prodotto il film con la loro società Citrullo International in partnership con la Misami Film di Alessandro Verdecchi, la Campanella Productions e il sostegno del Programma Media dell’Unione Europea. Le riprese sono frutto di un viaggio di 5 settimane (tra gennaio e febbraio 2002) nel cuore degli Usa e del suo cinema, tra California e Colorado, Virginia e Minnesota.
“Tutto è nato a partire da una sincera e ragionata passione ma senza lasciare nulla al caso” spiegano Gerardo Panichi e Daniele Villa.
Come è nata l’idea del documentario?
Tutto è cominciato nel 1999 con l’uscita di La sottile linea rossa. La sua potenza visiva ci ha lasciati senza fiato. Abbiamo visto anche gli altri film di Malick e ci ha colpito la loro coralità, tanto da decidere di fare un documentario che fosse un vero concerto di voci e pensieri. Il mito su Malick come regista inavvicinabile è da sfatare: tiene molto alla sua privacy ma ha una straordinaria disponibilità a confrontarsi sul cinema. Dopo un primo contatto con il suo agente, lo abbiamo incontrato lo scorso anno a Milano: è stato emozionante. Ha preferito non comparire nel filmato ma ci ha offerto un supporto enorme. E’ stato lui a contattare molti suoi attori e collaboratori tra cui c’è stato un vero e proprio passaparola: Elias Koteas, ad esempio, era entusiasta e ha coinvolto Al Pacino, che però abbiamo mancato per un soffio, e Penny Allen.
Qual è il tratto di Malick che ricorre nelle testimonianze?
La sua enorme capacità di comunicare, di infondere sicurezza e tranquillità. Malick insegna a scoprire e rimanere fedeli a se stessi. E’ un simbolo che negli Usa tiene vivo il desiderio di fare cinema. Vedere un suo film è come leggere il meglio della letteratura americana. Con uno sguardo indagatore, ma non giudicante, ha messo in scena i passaggi fondamentali della storia degli Stati Uniti: dal primo ‘900 del conflitto tra culture rurali e cittadine in I giorni del cielo, alla perdita di innocenza della Seconda Guerra Mondiale in La sottile linea rossa. E facendo le interviste ci siamo trovati di fronte alla complessità della cultura americana, di cui gli europei hanno spesso una visione riduttiva.
La storia produttiva del documentario?
Un’impresa faticosa e i fondi del programma Media sono stati fondamentali. Poi, grazie a Patrizia Tallarico siamo entrati in contatto con Alessandro Verdecchi: tra i vari produttori che abbiamo incontrato è uno dei pochi che ha entusiasmo verso i giovani e coraggio di rischiare.
Volete anche pubblicare un libro su Malick. Come sarà articolato?
Il progetto è ancora in fase embrionale ma ci piacerebbe che l’editore fosse ancora Ubu Libri con cui abbiamo un rapporto consolidato e prolifico. Vorremmo pubblicare la versione integrale di tutte le interviste realizzate per il documentario e tagliate, con grande dolore, nel montaggio.
Tra i registi italiani a chi dedichereste un lavoro analogo?
A Ermanno Olmi perché con Il mestiere delle armi ha riportato il cinema italiano ai vertici mondiali. Ci piacerebbe seguirlo sul set del suo prossimo film.
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