CENSURA IERI


Ogni tanto il problema della censura dei film viene sbattuto in prima pagina. Se ci può consolare, il problema riemerge oggi molto meno di un tempo, quando era all’ordine del giorno ogni settimana. In compenso, più i tempi si allungano, meno si ricorda l’origine del problema, che affonda le sue radici in almeno un punto fermo: il dettato costituzionale, che all’articolo 21 prevede la censura preventiva amministrativa sugli spettacoli cinematografici e teatrali, mentre la esclude sulla stampa, la quale è soggetta alla sola azione repressiva, esercitata dalla magistratura.
Ultimo Tango La formulazione viene mitigata dal successivo articolo 33, in cui si proclama che l’arte e la scienza sono libere e libero è il loro insegnamento. Un articolo, quest’ultimo, che non rappresenta nulla di rivoluzionario, poiché lo stesso concetto era già nel codice penale fascista, il “Codice Rocco”, che su tale argomento assumeva un tono a dir poco crociano.
D’altra parte si trattava di un enunciato puramente teorico. Non ci risulta, infatti, che, durante il ventennio fascista, la magistratura sia stata chiamata a stabilire una sola volta, se uno spettacolo, o uno scritto, avesse diritto a definirsi “opera d’arte” o “di scienza” e, quindi, esente da ogni tutela censoria. Ci pensava il Governo a prevenire e a sgravare i giudici da un simile imbarazzo.
Le cose per il cinema e il teatro non mutarono con la Costituzione, almeno fin quando la censura amministrativa fu praticata in famiglia, vale a dire direttamente dalla Direzione generale dello spettacolo, che continuò a comportarsi come il Minculpop fascista (d’altronde i funzionari, comandati a reggerla, erano rimasti gli stessi). I problemi nacquero quando, sulla spinta di un Paese soggetto a un convulso processo di modernizzazione, la censura fu costretta ad allentare le maglie, invogliando alcuni magistrati all’azione repressiva contro i film che, a loro avviso, valicavano i confini del buoncostume.
A questo punto tutti i nodi vennero al pettine. Cosa ci stava a fare la censura preventiva, se il nulla osta di circolazione non garantiva un film dall’eventualità di un’azione penale? Qual’era l’esatto significato del termine “buoncostume”? Si trattava di un valore immutabile, o soggetto a mutare col mutare dei costumi? E quand’è che un film è un’opera d’arte? Chi lo stabilisce?
Ricordo il trauma subito dal povero Domenico Meccoli, quando apprese che la sua recensione negativa di Ultimo tango a Parigi, l’unica in un mare anche eccessivo di lodi, in Italia e all’estero, era valsa a mandare al rogo le copie del film di Bertolucci. “Se sapevo un tanto – continuava a dire – avrei scritto che è un capolavoro!”

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06 Febbraio 2003

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