Autrice di diversi corti e con studi newyorkesi alle spalle, Carola Spadoni esordisce nel lungometraggio con Giravolte, storia di persone che vivono in una Roma non patinata. Il film, girato nel ’98 e in concorso al Torino Film Festival, ha avuto una travagliata vicenda produttiva, dalla quale è riuscito finalmente ad emergere.
“Il progetto iniziale era più ambizioso rispetto alle possibilità offerte dalla produzione, ma il film è stato fatto esattamente come volevo: in cinemascope, girato in tre settimane, con gli attori che ho scelto. Se hai tempi stretti e basso budget devi esercitare un’utile ginnastica mentale ed emozionale, che arricchisce il prodotto”.
Com’è nata l’idea?
C’era una baracca sotto il ponte di Testaccio (ora la polizia l’ha distrutta). Ci sono capitata per caso una sera e ho visto questo posto arredato e ben tenuto e ho iniziato a parlare con le persone che ci vivevano. Provo molto interesse verso coloro che non sono inseriti nelle dinamiche dominanti, che non si allineano e non si preoccupano di come vivono. Questo interesse è una costante di tutte le mie opere.
Lavori con una sceneggiatura rigida?
Durante la lavorazione di Giravolte alcune situazioni erano “chiuse”, prevedevano un’attenzione ai testi e ai movimenti, anche per non inciampare nelle macchine. Abbiamo lavorato molto durante le prove, cercando di perfezionare i dialoghi. In altri momenti, invece, ho lasciato spazio alle improvvisazioni, anche se avevamo elaborato precedentemente argomenti e spunti.
Nel film recitano Victor Cavallo (purtroppo scomparso l’anno scorso), Raz Degan e Drena De Niro (la figlia di Robert), e attori non professionisti. Com’è stata la vostra convivenza sul set?
Sono riuscita a creare un bel rapporto con gli attori e con la troupe. Con Victor Cavallo improvvisavamo molto. Con lui avevo già lavorato in Dal Missouri alla Garbatella. Era una persona estremamente altruista, con una grandissima capacità professionale. Aiutava moltissimo gli altri attori, dandogli il “la” per farli intervenire, rispettando i loro spazi. Con Degan e la De Niro è stato diverso anche perché i loro ruoli erano più strutturati.
Come sei entrata in contatto con loro?
Drena l’avevo conosciuta a New York ed è stata molto contenta di venire a lavorare in Italia anche se ai minimi salariali. Degan invece l’ho scelto dopo un provino. È stato molto divertente. Abbiamo girato a Rocca di Papa, in un bar, d’agosto. Faceva caldissimo, e fuori c’erano le fan in adorazione.
C’è una grande fioritura di nuovi registi esordienti. Anche tu fai parte di questa schiera …
Mi sento esordiente da un sacco di tempo. Credo che l’attenzione di oggi verso i giovani sia un’esigenza del mercato, un’idea che aiuta l’industria dell’immagine.
Tutti questi nuovi autori lavorano preferibilmente da soli, scrivendo e dirigendo le loro storie…
A New York lavoravo con un gruppo di autori, ma non penso che in Italia ci sia la voglia e la cultura per farlo. Il cinema di gruppo richiede impegno enorme e grande disponibilità. Ci sono persone che stimo molto, Beniamino Catena, per esempio, o Michele Mellara e Alessandro Rossi che stanno girando il loro primo film. Ho lavorato per il progetto sul Genoa Social Forum, ma non è stato un lavoro di gruppo.
Progetti futuri?
Sto preparando un soggetto da girare in Italia e in un altro paese europeo: il viaggio di una ragazza un po’ cattiva. E poi sto scrivendo una sceneggiatura da realizzare a New York: un thriller ambientato in un bar di spogliarelliste.
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