CANNES – 1983, 2004. Un diario come guida nella memoria famigliare e la volontà/necessità di ricreare un ponte con i genitori biologici, con le radici: con Romería – in Concorso a Cannes 2025 – Carla Simón, dopo il successo di Alcarràs, abbandona il racconto corale e naturalistico per addentrarsi in un terreno più rarefatto, dove il tempo si sospende – o meglio si fende in due tempi paralleli – e lo spazio si carica di una dimensione ancestrale.
Il titolo stesso — Romería, termine che designa i pellegrinaggi popolari spagnoli — richiama immediatamente il senso del rito collettivo, della comunità che si riunisce per celebrare qualcosa che è al tempo stesso religioso, identitario e profondamente carnale: tuttavia, Simón sovverte le attese e la romería che mostra non è spettacolare ma un po’ didascalica e déjà-vu sì, avvolta da un’atmosfera di troppo lenta dissoluzione, come se la memoria del gesto fosse logorata dal tempo e dalla dimenticanza.
Il film si configura come una riflessione sul legame tra immagine e memoria, tra corporeità e territorio. La regista catalana osserva i volti, i gesti e i corpi con una lente affettiva, insistendo su dettagli che sembrano emergere da una coscienza collettiva in disfacimento: la romería è sinonimo della famiglia, quella di origine, cui la protagonista, Marina Piñeiro (Llúcia Garcia), adesso 18enne, si avvicina – accolta, tutto sommato – per poter ottenere un documento di stato civile per gli studi superiori. La camera non documenta ma evoca: Marina, adottata fin da bambina, è qui guidata dal diario della mamma – cui, sul grande schermo, dà volto la stessa attrice, nel doppio ruolo; lei viaggia verso la costa atlantica e incontra una parte della famiglia paterna che non conosce: un arrivo, il suo, che riporterà indietro nel passato, facendo rivivere il ricordo e sollevando un velo su non detti e vergogne.
Romería s’inserisce in una tradizione di cinema antropologico e sensoriale: è un film che spalanca varchi percettivi e interrogativi sul senso della comunità, sulla sopravvivenza dei rituali nel mondo contemporaneo, e sulla possibilità stessa del cinema di catturarne l’essenza effimera.
Carla Simón consegna una storia in cui la romería non è tanto un evento da raccontare quanto un frammento da attraversare, come un sogno lucido che ci obbliga a riconsiderare il nostro rapporto con il tempo, con gli altri, con la memoria, appunto.
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