‘Braveheart’, il cuore impavido pulsa ancora dopo 30 anni

Uscito nelle sale statunitensi il 24 maggio 1994, il film di Mel Gibson continua ad essere un punto di riferimento per i film di stampo epico


Pochi film hanno saputo cucire insieme gli strappi che la guerra infligge con brutalità ai popoli e  la canzone solenne del mito come ha fatto Braveheart – Cuore impavido. Trent’anni dopo la sua uscita, resta un colosso narrativo che ha ridefinito il modo in cui il cinema racconta il coraggio, la ribellione, l’amore per la libertà. Un monumento epico un po’ impolverato, certo, ma che vibra ancora di rabbia, eroismo e visione.

Il film di Mel Gibson fece il suo debutto il 24 maggio 1995 : fu un grido furioso che inneggiava alla libertà scolpita nel fango, nel sangue e nel vento delle Highlands. Un’opera che, pur indulgendo in eccessi e distorsioni storiche, ha impresso nella coscienza collettiva un’idea mitica di coraggio e sacrificio.

Un poema epico di carne e acciaio

Braveheart racconta la storia di William Wallace, condottiero scozzese del XIII secolo, animato da una rabbia personale diventata presto bandiera nazionale. Lì dove altri si sarebbero fermati a un ritratto oleografico, Mel Gibson, al suo secondo film da regista, confeziona un’epopea visionaria e viscerale. La sorpresa è proprio questa: che un attore hollywoodiano, noto fino a quel momento per ruoli d’azione, si riveli capace di dirigere con una potenza espressiva che lascia senza fiato.

Gibson incarna Wallace con rabbia trattenuta e furore emotivo. Ma il vero miracolo è dietro la macchina da presa. Grazie alla fotografia magistrale di John Toll e al montaggio calibrato di Steven Rosenblum, Braveheart alterna scene di battaglia di violenza maiuscola a momenti di intensa liricità. Il risultato è un film che si muove come un poema cavalleresco: esagerato, crudele, romantico.

Non mancano le critiche. L’eccessiva durata, il gusto per l’enfasi, certe cadute nell’autocompiacimento: tutto vero. Ma queste “imperfezioni” contribuiscono al suo fascino. Braveheart non è un trattato storico, è un atto d’amore per il mito, un urlo di battaglia che sopravvive alla verità dei fatti perché aderisce a una verità emotiva più profonda.

L’eredità di Gibson

Nel tempo, Braveheart è diventato qualcosa di più di un successo commerciale (cinque Oscar, tra cui miglior film e miglior regia): è diventato una matrice per il cinema epico dei decenni successivi. Senza di esso, probabilmente non avremmo avuto Il gladiatore, Le crociate, L’ultimo samurai. Il suo stile visivo, la capacità di coniugare brutalità e emozione, ha ridefinito i canoni del racconto storico.

La sua eredità non è fatta solo di frasi scolpite nella memoria (“You can take our lives, but you’ll never take our freedom!”), ma di una visione: quella di un cinema che osa, che non ha paura del ridicolo, che vibra di passione sincera. Un film che si può amare anche per i suoi eccessi, perché ogni inquadratura è spinta da un’urgenza autentica, da una fame di grandezza che, trent’anni dopo, non ha ancora perso il suo eco.

Braveheart è ancora lì. Con le sue colline nebbiose, i suoi visi dipinti, la sua rabbia limpida. Un racconto che pulsa di sangue, terra e desiderio. Un’epopea rude e struggente che continua a colpire al cuore.

Curiosità e aneddoti

Tutto cominciò da un sogno: Randall Wallace, autore della sceneggiatura, raccontò di aver visitato la Scozia e, colpito dal racconto appassionato di una guida turistica, tornò a casa con l’immagine di William Wallace così vivida nella mente da sognarla. Quel sogno divenne scrittura, e quella scrittura divenne mito.

Mel Gibson, nel doppio ruolo di attore e regista, scelse di non usare un marcato accento scozzese per rendere il protagonista più universale, pur attirandosi critiche da parte degli storici. Ma a Gibson interessava più la forza del simbolo che la fedeltà filologica.

Le battaglie furono girate senza l’ausilio della CGI. Per rendere credibili le masse in guerra, Gibson reclutò migliaia di soldati dell’esercito irlandese, trasformando i campi in set viventi e le cariche in carne e caos. Il realismo di quelle sequenze, montate con sapienza da Rosenblum, è ancora oggi uno degli standard più alti del cinema bellico.

Nel backstage si raccontano storie folcloristiche e divertite: come quella, mai smentita, secondo cui molti attori sotto il kilt rispettavano davvero la tradizione, con risultati imprevedibili nelle riprese più movimentate.

E non fu solo cinema. Dopo l’uscita del film, in Scozia si registrò un rinnovato fervore indipendentista. Braveheart contribuì, involontariamente, a riattivare un senso di identità nazionale, tanto che alcuni analisti politici iniziarono a citarlo come catalizzatore culturale della rinascita scozzese.

Infine, gli Oscar. Non era dato come favorito, eppure vinse cinque statuette, battendo rivali come Apollo 13 e Il postino. La critica americana parlò di “trionfo dell’epica”, confermando che, ogni tanto, anche l’Academy sa lasciarsi travolgere dalla passione.

Trent’anni dopo, Braveheart resta un’eco. E ancora grida: “Freedom!”

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18 Maggio 2025

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