Berlino ai confini dell’Occidente


WANG QUAN'AN, YU NANBERLINO Conferma sempre di più la sua vocazione di impegno e di ricerca di nuovi talenti ai confini del mondo occidentale il Festival di Berlino. Non deve dunque sorprendere più di tanto l’esito di questa 57/a edizione, anche se il favorito della vigilia, Irina Palm, tanto applaudito e amato dal pubblico, se ne va a mani vuote. L’Orso d’oro se lo aggiudica un film cinese, Tuya’s Marriage di Wang Quan An, che racconta la storia di una donna pastore nella Mongolia, territorio estremo e ancora “vergine”, ultima frontiera – assediata dall’industrializzazione e dalle rapide trasformazioni che spingono le popolazioni verso la città – in un’era di globalizzazione dove ovunque si possono comprare gli stessi vestiti, gli stessi cibi, gli stessi cosmetici: Tuya trova un secondo marito quando non è più in grado di provvedere al primo, invalido, e la sua esistenza ci sembra tanto più sorprendente perché immersa nelle leggi non scritte di una cultura tanto distante dalla nostra. Un certo tipo di pubblico è sempre più ansioso di vedere al cinema paesaggi, geografici e umani, come questi.
Ma anche il doppio premio a El Otro di Ariel Rotter, conferma l’originalità e la forza di un cinema, quello argentino, che da qualche anno ha saputo raccontare un paese alla deriva, la crisi economica, le dinamiche sociali, il bisogno di riscatto anche trovando una chiave metaforica, che va oltre la lezione del neorealismo: in questo caso con una vicenda quasi pirandelliana di scambio d’identità.

C’è poco da essere delusi quindi perché la Berlinale persegue questa politica “terzomondista” da tempo e anche con strumenti di minor immediato impatto ma ben più consistenti come l’attività di finanziamento di progetti che va sotto l’etichetta di World Cinema Fund.
D’altronde è vero che il livello medio della selezione, quest’anno, è stato al di sotto delle aspettative ed è un peccato che la giuria di Paul Schrader abbia completamente dimenticato il film di Saverio Costanzo, che ci è sembrato tra i più interessanti e non per meri motivi di orgoglio nazionale. Ai padroni di casa è andato un Orso d’argento in qualche modo prevedibile: della performance di Nina Hoss nel thriller “paranormale” Yella di Christian Petzold si era parlato moltissimo al Festival, e soprattutto sulla stampa tedesca: aveva affascinato la sua interpretazione di una giovane donna decisa a uscire dalla palude di una vita di provincia nell’ex Germania dell’Est, perseguitata da un ex marito aggressivo e violento che vorrebbe riportarla indietro.
Altri titoli segnalati dai premi sono l’israeliano Beaufort di Joseph Cedar, sulla prima guerra con il Libano (premio per la regia), il coreano I’m a cyborg but that’s ok di Park Chan-Wook (innovazione) e Hallam Foe, con Jamie Bell (musiche). Un discorso a parte merita il riconoscimento all’intero cast di The Good Shepherd – L’ombra del potere, la seconda regia di Bob De Niro. Un premio collettivo a Matt Damon, Angelina Jolie e allo stesso De Niro sinceramente suona un po’ come una presa in giro e stona con l’insieme di scelte tanto radicali. Meglio sarebbe stato ignorare del tutto il primo capitolo di questa storia universale della Cia.

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18 Febbraio 2007

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