Ormai lo sanno tutti, non solo gli addetti ai lavori, che per i selezionatori di Cannes la scelta del film italiano da inserire in concorso è stata tormentata. Infine è prevalso Il cuore altrove, mentre altri film hanno rifiutato la corsia parallela di “Un certain regard”, che gli veniva offerta. Per noi è difficile capire perché la competizione ufficiale non potesse ospitare almeno un nostro secondo film. Un esempio: La finestra di fronte, trionfatore all’ultima tornata dei David (dove, non dimentichiamo, Avati aveva ricevuto il premio per la migliore regia). Ma la questione, così esposta, è male impostata. A parte il fatto che, a offrirci, non eravamo solo noi italiani e non sappiamo quale fosse il livello delle offerte straniere, c’è una ragione di fondo che non va scordata: l’esistenza di una speciale categoria di pellicole, il “film da festival”, alla quale l’opera di Avati aveva qualche caratteristica in più per appartenervi, a causa di un profilo autoriale più collaudato, soprattutto a Cannes dove Avati era già stato in concorso due volte (con Bix e con Magnificat).
“Film da festival” è una definizione fluida, che varia da una manifestazione all’altra. Nello stesso festival, poi, è una definizione che varia negli anni. Cannes ha vissuto tre periodi distinti: dalla nascita al ’68, quando era chiamato la “vetrina dell’esistente”, epiteto che non poteva non mandarlo in crisi, con la progressiva affermazione mondiale del cosiddetto “nuovo cinema”; dal ’69 alla fine degli anni ’70, periodo che potremmo chiamare di transizione; dagli anni ’80 a oggi, cioè l’era Jacob, il suo direttore.
Se scorriamo le selezioni, che si sono susseguite dal ’46, troviamo parecchi film italiani che oggi non verrebbero presi in considerazione. Forse non verrebbero neppure proposti. Vi immaginate oggi in concorso Amanti in fuga, “biopic” romanzata di Alessandro Stradella, diretta da Giacomo Gentilomo con Gino Bechi, il baritono, nel ruolo del compositore e Annette Bach, una superstite della colonia di attrici tedesche, trapiantate a Cinecittà durante il ventennio fascista?
Di esempi, come questo, ce ne sono molti, ben distribuiti nei primi due periodi. Perché anche dopo il ’68, anno in cui il festival fu contestato e interrotto prima del termine, il concorso continua a essere, almeno in parte, la “vetrina dell’esistente”. Ad accogliere il cinema “alternativo”, fu allestita la “Quinzaine des Réalisateurs”, gestita direttamente dall`associazione francese dei registi, oltre la “Semaine de la Critique”, già in funzione da qualche anno. Nessuna meraviglia, quindi se nel ’69, accanto a Ferreri e ad Andreassi, concorsero Metti una sera a cena e Gli intoccabili, crime movie all’americana di Giuliano Montaldo, nel ’72 Mimi metallurgico della Wertmüller, nel ’73 Bisturi la mafia bianca di Luigi Zampa, nel ’75 Yuppi Du di Celentano, per citarne solo alcuni, tutti film dignitosi, ben girati, ben recitati, tecnicamente ineccepibili; tutta merce, comunque, che oggi non troverebbe posto in concorso.
A ben guardare, la frattura con questa abitudine, la si ebbe nel ’77, quando la giuria, presieduta da Rossellini, assegnò la Palma d’Oro a Padre padrone dei fratelli Taviani, prodotto Rai, di cui non era nemmeno prevista l’uscita in sala, mentre lasciò a secco due gioielli della produzione privata: Un borghese piccolo piccolo di Monicelli e Una giornata particolare di Scola. L’ira dei produttori italiani fu grande, come se la Palma fosse andata a una pellicola “di nicchia”, proveniente dall’Albania. Insomma, il premio ai Taviani fu considerato un’offesa al cinema italiano, dovuto proprio al fatto che alla presidenza della giuria stava un regista come Rossellini, che da tempo aveva abbandonato il cinema per lavorare in tv. Lo stesso establishment del festival rimase sconcertato, tant’è vero che il suo presidente, Robert Favre Le Bret, scrisse un articolo intitolato: “Maintenant je me méfie des amateurs éclairés”.
Sia come sia, l’anno dopo il festival fu dato in mano a un nuovo délégué général, Gilles Jacob, sino allora critico a tempo pieno, il quale si rivelò un abile riformista, aumentando le sezioni parallele e, soprattutto, togliendo al concorso le residue vestigia dell’ “esistente”. Cinema autoriale a tutto spiano, dunque, porte aperte al cinema del Terzo Mondo (soprattutto se realizzato in coproduzione con la Francia); opere prime a gogò; largo ai prodotti di nicchia, realizzati da futuri possibili “maestros”, da coltivare come fiori di serra, accanto ai “maestros” giàriconosciuti, ospiti fissi del festival.
Il programma odierno tiene fede a questo palinsesto: Avati può considerarsi già uno dei “maestros” riconosciuti tali, accanto a Raul Ruiz, Lars von Trier, Clint Eastwood, Aleksandr Sokurov e Peter Greenaway. La “vetrina dell’esistente” è confinata al remake di Fanfan la Tulipe, diretto da Gérard Krawczyk, regista di genere, e alla seconda puntata di Matrix, entrambi fuori concorso.
La finestra di fronte non è un film di genere, ma non è nemmeno un film alternativo: piace troppo al comune spettatore per esserlo. E Ozpetek non ha ancora l’anzianità autoriale per piacere a tanti. Non rientra, quindi, nella categoria “film da festival”, almeno da festival di Cannes, Il quale, secondo Fremaux, délégué général, responsabile ultimo della selezione, sarebbe un “festival di transizione”. Rientriamo nella fluidità tipica degli anni ’70? La risposta, la potremo dare alla fine del festival.
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