‘Apollo 13’, trent’anni di un’odissea americana

Il film di Ron Howard è ancora uno dei più potenti esempi di cinema storico e spettacolare. Cosa lo rende speciale e 5 curiosità da non perdere: dalla passione di Tom Hanks per lo spazio alle scene girate sulla "Vomit Comet"


“Houston, abbiamo un problema”. Non c’è spettatore che non ricordi quella frase, pronunciata da un Tom Hanks magistrale nel ruolo del comandante Jim Lovell. Trent’anni dopo la sua uscita, Apollo 13 di Ron Howard resta uno dei più potenti esempi di cinema storico e spettacolare. Uscito in anteprima americana il 22 giugno 1995, il film ricostruisce con straordinaria precisione la missione NASA del 1970, passata alla storia non per l’allunaggio, mai avvenuto, ma per il miracolo di un ritorno a casa. Howard, affiancato da un cast d’eccezione e da una cura maniacale per i dettagli, trasforma un fallimento tecnico in un trionfo narrativo, capace di fondere tensione, umanità e orgoglio nazionale.

Il contesto è quello della corsa allo spazio, culminata con la vittoria americana del 1969: l’allunaggio di Neil Armstrong ha suggellato una conquista simbolica e politica. Jim Lovell, interpretato da Tom Hanks,  con la misura e l’equilibrio che da sempre sono la sua cifra, si muove all’inizio del film tra compiti promozionali e sogni personali, sospeso tra il ruolo di veterano rispettato e quello di eterno secondo.

Lavora nella Vehicle Assembly Building a Cape Kennedy, apparentemente più impegnato in attività di rappresentanza che nella preparazione di una nuova missione. La possibilità di comandare l’Apollo 14 sembra il suo destino, finché un colpo di fortuna (o di destino) lo catapulta nella missione precedente: Apollo 13.

Lovell, con Fred Haise (Bill Paxton) e Ken Mattingly (Gary Sinise), si prepara a partire con largo anticipo. Ma quando Mattingly viene rimosso a causa di un sospetto contagio da morbillo, il più giovane e impulsivo Jack Swigert (Kevin Bacon) prende il suo posto. Una sostituzione che insinua nervosismo, non solo tra i membri dell’equipaggio, ma anche nella moglie di Jim, Marilyn (Kathleen Quinlan), che presagisce un pericolo. “Non staranno affrettando le cose, vero?”, chiede con apprensione. E il pericolo arriva, con la famosa esplosione in volo. Curiosamente, la battuta emblematica del film è una delle poche non tratte direttamente dalle trascrizioni originali.

Houston, abbiamo un filmone!

Ron Howard imposta il film con un rigore quasi documentaristico, ma senza rinunciare a una tensione narrativa costante. Per farlo, si affida a una sceneggiatura solida (scritta da William Broyles Jr. e Al Reinert) e alla consulenza diretta di Jim Lovell, autore del libro Lost Moon da cui il film è tratto. Il risultato è una messinscena asciutta, rispettosa dei fatti eppure piena di momenti drammatici indimenticabili: l’accensione manuale dei motori, la costruzione del filtro per l’anidride carbonica con mezzi di fortuna, il silenzio angosciante durante il rientro in atmosfera.

La tensione non deriva solo dagli imprevisti tecnici, ma anche dal progressivo isolamento psicologico e fisico dell’equipaggio, reso con straordinaria efficacia dalle riprese all’interno del modulo di comando. Howard punta sul dettaglio: il fiato che si condensa, il buio che si infittisce, la claustrofobia crescente. Ogni gesto è calcolato, ogni battuta è autentica, anche quando si cede al necessario pathos familiare, con bambini che non capiscono, mogli che temono, tecnici che sbagliano.

Come già accaduto in film come Uomini veri, Howard inserisce il calore degli elementi familiari a contrasto con la freddezza tecnica della missione. C’è un’attenzione alla dimensione domestica, alla paura delle mogli, ai figli che si interrogano, alla politica delle dirette TV. Forse non indispensabili, ma funzionali a umanizzare i protagonisti. E se una parte del film è occupata da linguaggio tecnico e gergo da sala controllo, questo contribuisce a rendere più autentico e immersivo il racconto.

Ed Harris è straordinario nel ruolo di Gene Kranz, il direttore di volo che incarna l’ideale americano della leadership calma, razionale, incrollabile. I momenti più intensi non sono necessariamente quelli a bordo, ma quelli a terra, nelle brainstorming sessions dove l’ingegno collettivo salva delle vite: ingegneri che risolvono problemi insormontabili con materiali di fortuna, calcoli fatti a mano, idee che si trasformano in azioni decisive.

Come si diventa cult

All’epoca della sua uscita, Apollo 13 fu un successo di critica e pubblico. In un’estate dominata da sequel e blockbuster fracassoni, il film di Howard si distinse per eleganza e rigore. Ottenne nove nomination agli Oscar (inclusa quella per il miglior film) e ne vinse due: miglior montaggio e miglior sonoro. Ma il vero riconoscimento fu la sua capacità di entrare nell’immaginario collettivo, diventando non solo un film, ma un documento emotivo sulla fragilità e la forza dell’uomo davanti all’ignoto.

Apollo 13 è stato utilizzato in ambito didattico, studiato nei corsi di ingegneria, citato nei libri di management come esempio di problem solving. Ma soprattutto è stato amato dal pubblico per la sua sincerità narrativa, per quel suo raccontare un’epopea senza eroi invincibili, solo uomini determinati. Trent’anni dopo, è ancora uno dei migliori esempi di come il cinema possa rendere giustizia alla realtà senza spettacolarizzarla, e anzi restituendole dignità e intensità. Merito anche di una regia sapiente, capace di trasformare sensori impazziti, calcoli d’emergenza e schermate nere in puro cinema di suspense, e di un cast che non cerca di impressionare ma di convincere.

5 curiosità su Apollo 13

  1. Tom Hanks, appassionato di spazio da sempre, si è preparato al ruolo incontrando gli astronauti reali e studiando i manuali tecnici della NASA. Dopo il film ha addirittura prodotto una miniserie, From the Earth to the Moon, per HBO.
  2. Le scene in assenza di gravità sono state girate a bordo del “Vomit Comet”, il soprannome del KC-135: ogni parabola di volo durava circa 25 secondi, e la troupe ne ha effettuate più di 600.
  3. Jim Lovell appare in un cameo alla fine del film, interpretando il capitano della portaerei che accoglie gli astronauti di ritorno.
  4. Per aumentare il realismo, gli attori hanno davvero recitato all’interno di moduli costruiti con materiali simili a quelli originali. Nessuna scenografia finta, tutto era pensato per essere autentico.
  5. Ed Harris, nei panni di Gene Kranz, si è ispirato direttamente ai filmati d’epoca per ricreare il tono, il portamento e persino lo stile del celebre direttore di volo.
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21 Giugno 2025

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