Il suo sguardo – non raramente celato dietro grandi e impenetrabili occhiali da sole -, il taglio netto della frangia, l’inflessibilità cortese della sua voce, sono segni di un potere femminile che il sistema-moda ha contribuito a cristallizzare, ma che il mezzo audiovisivo ha amplificato e decostruito in modi affascinanti: nel cinema e nelle serie televisive, poche figure reali riescono a esercitare un’autorità iconica pari a quella di Anna Wintour, 75 anni. Non attrice, non regista, ma presenza ineludibile.
La giornalista britannica, da quasi quattro decenni alla guida della Bibbia della Moda, Vogue America, dopo 37 anni lascia la direzione della rivista: la notizia, che rimbalza da un capo all’altro del globo – non solo del fashion ma pop tutto – sembra proprio recitare la fine di un’epoca.
Tre titoli da grande e piccolo schermo delineano, in particolare, un profilo complesso, oscillante tra ritratto documentario e messa in scena di un potere editorial-femminile raramente esplorato con tale nitidezza.
Il primo è The September Issue (2009), forse il più conosciuto tra i doc che la vedono protagonista. Diretto da R.J. Cutler, il film osserva la costruzione del numero più importante di Vogue, quello di settembre 2007. L’interesse non è tanto cronachistico quanto narrativo: Wintour emerge come personaggio tragico e freddamente efficace, una regista più che un’editor, impegnata a orchestrare un’operazione culturale che va ben oltre l’estetica. L’interazione con Grace Coddington, direttrice creativa dal gusto visionario e romantico, mette in scena una dialettica tutta al femminile tra visione e controllo, immaginazione e decisione.
Bloomberg Game Changers: Anna Wintour (2011) – serie investiga in quattro stagioni che offre uno sguardo mai piatto su personaggi di spicco – tenta una sintesi biografica. Breve, televisivo, di taglio anglosassone, compone un ritratto “da dossier”, ma anche qui il carisma della protagonista forza i confini del formato. Wintour viene trattata come un CEO della creatività, con un’attenzione particolare alla sua capacità di strategia e di leadership. Il tono è celebrativo, ma filtra – tra le pieghe – una riflessione su come l’autorevolezza femminile sia spesso ancora raccontata nei termini dell’eccezionalità individuale, mai come sistema.
Infine, In Vogue: The 90s (2024), docuserie in sei episodi prodotta anche da Wintour stessa, chiude il cerchio: non più solo soggetto d’osservazione ma parte attiva della propria rappresentazione. La serie – disponibile su Hulu e Disney+ – ricostruisce la rivoluzione culturale della moda negli Anni ‘90, facendo di Vogue una lente sul mondo. Wintour appare come curatrice e custode di un’epoca, consapevole del proprio ruolo nella trascrizione visiva di un tempo che fu. È un racconto corale, sì, ma fortemente segnato dalla sua impronta: dalla supermodella al red carpet, ogni narrazione sembra portare la firma implicita della sua direzione.
Attraverso questi progetti, Wintour s’impone nel linguaggio cinematografico non solo come “personaggio reale”, ma come simbolo autoriale di una cultura in cui l’immagine è potere, e la narrazione diventa territorio di influenza. Se il cinema tende spesso a costruire archetipi femminili a partire dalla fragilità, qui siamo di fronte a una figura che coniuga autorità e stile senza concessioni alla sentimentalizzazione. Una forma di protagonismo che non ha bisogno di artifici per imporsi.
Ci sono poi altri titoli in cui Anna Wintour compare, tra cui: Valentino: The Last Emperor (2008); Bill Cunningham New York (2010); The Last Impresario (2013); The First Monday in May (2016). In tutti questi racconti per lo schermo, la figura di Wintour funziona come una costellazione: non sempre al centro della scena, ma sempre determinante nel definire l’orizzonte.
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