CANNES – Si entra nelle viscere petrose, sabbiose e scarlatte della terra, si fuoriesce dai fori purpurei incisi nell’epidermide del braccio di un uomo.
Julia Ducournau – dopo quattro anni da Titane e la Palma d’oro conquistata per il film, torna in Concorso a Cannes – continuando a lavorare sul corpo, sull’idea della trasformazione e della morte, del deperimento e della matericità marmorea nella sua visione corrente, sempre potente, sempre “alla Cronenberg”. I corpi sono al centro dell’inquadratura, ma non come mero oggetto di trasformazione: sono icone dolorose, catalizzatori di un tempo che si sta cristallizzando, letteralmente, nella pietra marmorizzata.
Con Alpha, Ducournau conferma una cifra autoriale riconoscibile, capace di sfidare la materia narrativa con una densità atmosferica e sensoriale che amplifica l’impatto emotivo e simbolico delle sue storie. Lontana dagli eccessi del body horror più diretto, ma comunque riuscendo in un impatto estetico tanto inquietante quanto affascinante, in cui il corpo umano si marmorizza man mano come effetto collaterale da dipendenza, la regista francese costruisce un mondo visivo rarefatto e immaginifico, in cui il reale si deforma – nello sguardo dalla mamma, anche medico, Golshifteh Farahaini, accanto a sua figlia Alpha, 13 anni, interpretata da Mélissa Boros -, per cui l’urgenza emotiva dei personaggi permette si rintracci una forma ibrida tra il racconto di formazione e la parabola metafisica.
Le atmosfere del film sono orchestrate con una cura maniacale per la luce e la temperatura cromatica: il lavoro di fotografia, affidato a Ruben Impens (già direttore della fotografia di Titane), oscilla tra la concretezza epidermica e l’evanescenza del sogno/desiderio. L’immagine è sia apocalittica che poetica, e trova nella regia di Ducournau una stilizzazione che richiama più l’arte plastica che il cinema realistico. Il tutto amplificato dalla perfezione calzante della scelta musicale, sempre epica, curata da Jim Williams.
Il tratto registico di Ducournau si fa più meditativo, ma non per questo meno radicale. La sua è una messa in scena della fragilità che rifiuta la compassione facile, si parla del desiderio ossessivo di non lasciar andare qualcuno (Amin, fratello della mamma, zio di Alpha): ogni inquadratura è calibrata per spingere lo spettatore in una zona di empatia instabile, dove l’identificazione è sempre messa in discussione. E il corpo adolescente dell’adolescente Alpha è continuamente sorvegliato, diagnosticato, giudicato: è su questo sguardo sociale, clinico e materno, che la regista costruisce un film dalla forte densità politica.
Alpha si affida a un cast che alterna potenza espressiva e vulnerabilità. Mélissa Boros, al suo esordio, offre un’interpretazione matura e profonda: la sua Alpha si muove tra resistenza, paura e desiderio di autodeterminazione. Accanto a lei, Tahar Rahim – che mette in scena un personaggio in odore di premio, per il talento di aver assunto sul corpo e sulla pelle il tormento, restituito con una mimica fatta di spasmi, tremori, e sorrisi: costruisce un ruolo di rara intensità trattenuta, infatti lo zio Amin è una figura di transizione, ponte tra la memoria collettiva e l’ascolto del singolo. La sua presenza è uno dei centri emotivi del film, e contribuisce a radicare la narrazione in una dimensione affettiva che va oltre i legami di sangue.
Con Alpha, Julia Ducournau rifonda le coordinate dell’horror esistenziale, confermandosi una delle cineaste più originali del panorama europeo contemporaneo.
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