C’è qualcosa di malinconicamente poetico, e allo stesso tempo incredibilmente giusto, nel fatto che Akira, uno dei massimi classici dell’animazione giapponese, finisca per sfuggire ancora una volta al filtro della macchina industriale hollywoodiana. Un film mai realizzato, ma che per vent’anni ha vissuto in uno stato di esistenza potenziale, come una particella subatomica indecisa se collassare in un lungometraggio o evaporare tra le pieghe della pre-produzione. Alla fine ha scelto la seconda opzione. O meglio, l’ha scelta Warner Bros., che ha deciso di non rinnovare il contratto sui diritti dell’opera, lasciandoli tornare a Kodansha.
Un epilogo che ha il sapore di un’implosione silenziosa, molto più simile alla dissoluzione psichica del protagonista Tetsuo che a un’esplosione catartica hollywoodiana.
C’è stato un tempo, era il 2002, in cui l’idea di una trasposizione live action di Akira sembrava non solo plausibile, ma addirittura auspicabile. La Hollywood di allora stava cominciando a flirtare con l’estetica e i contenuti del fumetto giapponese, e dopo l’ondata di culto che l’originale animato aveva generato in Occidente nei primi anni Novanta, sembrava naturale portare quella visione distopica di Neo Tokyo sul grande schermo, in carne e CGI.
Ma tra il dire e il girare ci sono di mezzo almeno sei registi, una decina di sceneggiatori, e un numero imprecisato di versioni della sceneggiatura che si sono succedute in un eterno reboot creativo.
D’altro canto, i risultati del Ghost in the Shell hollywoodiano con Scarlett Johansson, ormai datato 2017, non sono stati granché incoraggianti.
Forse il primo, vero peccato originale è stato spostare Akira da Tokyo. Un gesto apparentemente pratico, di adattamento culturale e produttivo, che però tradiva fin da subito l’anima dell’opera di Katsuhiro Ōtomo. In mano a Stephen Norrington e James Robinson – i primi della lista, freschi del flop de La leggenda degli uomini straordinari, tra l’altro – Akira diventava una storia di due fratelli nella Chicago del futuro… e basta. Poi toccò a Ruairi Robinson e Gary Whitta provare a salvare la situazione con una New Manhattan “giapponesizzata”, ma anche qui c’era molto odore di white washing, e questo genere di operazioni raramente funziona. Quando cominciarono a girare i nomi di Chris Evans e Joseph Gordon-Levitt come protagonisti, molti fan sentirono un brivido freddo lungo la schiena. E non erano gli effetti del cyberpunk.
Con Ōtomo, ha raccontato Whitta, “non ho mai parlato direttamente. Ma mi è stato riferito che avrebbe accettato di buon grado delle modifiche alla storia originale, perché voleva vederne un’interpretazione diversa, non un semplice remake”.
Col tempo si è capito che ogni nuovo ingresso nel progetto, più che portare nuova linfa, aggiungeva un altro strato di disconnessione tra l’idea e la sua esecuzione. Il Kaneda di Ōtomo, con la sua iconica giacca rossa, diventava ogni volta più simile a un manichino da blockbuster, mentre Tetsuo perdeva la sua inquietudine adolescenziale per trasformarsi in una figura mitica e indistinta, una bomba a orologeria hollywoodiana, debitrice del Dottor Manhattan di Watchmen, senza più radici culturali.
Nel 2009 i fratelli Hughes prendono le redini del progetto, affiancati dagli sceneggiatori Mark Fergus e Hawk Ostby. L’idea è di dividere il film in due parti – una scelta produttiva molto in voga ancora oggi – ma già all’epoca inizia a diffondersi online la sinossi: due fratelli trentenni, una Manhattan semi-orientale, un bambino psichico sadico chiamato Akira. È il momento in cui il progetto comincia davvero a far paura, a sembrare non tanto un film, quanto una pericolosa bomba concettuale destinata a tradire in toto lo spirito dell’originale.
Ōtomo, certo, aveva ragione a sostenere che “le reinterpretazioni sono più interessanti di un adattamento pedissequo”, ma anche la reinvenzione ha bisogno di un’anima. E quella che si delineava era, semplicemente, un’altra cosa. Un’altra storia, un altro mondo. I fan reagiscono, i gemelli Hughes se ne vanno.
Nel 2012, entra in scena Jaume Collet-Serra. La Warner sembra volerci credere davvero, e iniziano a circolare nomi grossi: Keanu Reeves, James Franco, Kristen Stewart, Gary Oldman, Ken Watanabe. Il set è già fissato in Canada, ma lo studio ha dubbi su tutto: sul cast, sul budget, sul copione. E ancora una volta il progetto si arena. Collet-Serra saluta, lo script cambia mani, si perde tempo. Il film torna in stand-by, come un server andato in sleep mode.
Poi arriva Taika Waititi, che apparentemente sembra consapevole della materia incandescente con cui sta giocando. La sua idea è chiara: “niente star, solo giovani attori asiatici-americani”, un adattamento fedele della prima parte del manga, rispetto per la cultura da cui tutto è nato. Ma anche lui ha troppi impegni, il progetto non parte, resta in bilico.
E così si arriva all’oggi. La Warner lascia andare i diritti. Kodansha se li riprende, forse pronta a risentire chi bussa alla porta. Perché sì, non è detto che sia finita. È solo un altro reset, in una storia fatta di promesse non mantenute, concept art pubblicati troppo presto, sceneggiature buttate giù e poi cestinate, sogni e incubi in loop.
Magari ci riproveranno tra dieci, vent’anni.
Fonte: ScreenWeek
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