Metti una sera a cena, con Sergio Rubini. L’idea è venuta a Mario Sesti che – insieme a Jacopo Mosca – ha voluto espandere il salotto cinematografico collaudato al Festival di Roma in versione gastronomica. Ha iniziato Carlo Verdone ispirando una prima riuscitissima serata di cinema e cibo tra i tavoli del ReD – Restaurant & Design all’Auditorium Parco della Musica. Il ristorante ha appena cambiato gestione ed era alla ricerca di invenzioni di marketing: la formula è piaciuta e potrebbe diventare un fuori programma del Festival per l’edizione 2011. Così dopo la tradizione romana in onore dell’autore di Un sacco bello, è toccato a un menù pugliese con variazioni calabresi (friselle, cozze fritte, orecchiette, cipolle di Tropea e lampascioni) in una cena curata dallo chef Daniele Carelli per l’attore e regista di Grumo Appula.
Rubini, reduce dal set de La montagna, diretto dal brasiliano Vincente Ferraz, sta per dirigere il suo nuovo film, l’undicesimo, intitolato La delegazione, scritto con Carla Cavalluzzi, Domenico Starnone e Oscar Iarussi, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci. Sarà la storia di un gruppo di meridionali che, partendo da un piccolo centro della Puglia, si recano a Parigi per recuperare un’opera d’arte trafugata dai francesi durante le guerre napoleoniche. “Il ritorno del prezioso oggetto dal Louvre al museo comunale dovrebbe far rinascere l’economia locale e ridare ossigeno alla comunità, ma il viaggio si complica. Non si può prendere l’aereo per colpa di una nube vulcanica, una frana a Benevento blocca le ferrovie e il percorso in pullman si prolunga, mentre la delegazione diventa sempre più affollata e caotica”. Un film corale, da girare entro l’anno, con Lino Banfi tra i protagonisti.
“Banfi, per moltissimi anni, era il pugliese per antonomasia e tutti ti facevano il verso del barese, tanto che molti personaggi famosi si fingevano napoletani o siciliani per reazione, da Arbore a Modugno“, racconta Rubini durante la chiacchierata con Sesti e Mosca. Si parte da un montaggio di scene dei suoi film sia da attore che da regista: L’uomo nero, La terra e Il viaggio della sposa, quindi Mio cognato di Alessandro Piva e poi una lunga scena da Amarcord di Federico Fellini, inevitabile omaggio al grande “provinciale” che lo scoprì, scegliendolo come suo alter ego in Intervista (1987). Racconta Sergio: “Quando girava, a meno che non ci fosse Giulietta, Federico faceva pause di due ore, durante le quali da Cinecittà ci portava a pranzo a Grottaferrata. E’ stato lì che ho imparato a mettere il cognac nel brodo e mi sono divertito a vedere i siparietti tra Mastroianni e Panelli, che erano come Ric & Gian e non si parlavano mai direttamente, ma sempre per interposta persona, mentre Marcello mangiava pasta e fagioli”. Molte sue memorie sono legate al cibo: “Per esempio Sergio Citti che al doppiaggio di Mortacci si portava due fette di pane con la salsiccia e la cicoria e mi ha fatto capire, a me che avevo il mito del cinema, che questo è un mondo più normale del previsto. Ma non tutti apprezzano il cestino ‘ignorante’: la pausa dei divi di Minghella, quando giravamo Il talento di Mr. Ripley, era a base di sushi per Gwyneth Paltrow e Jude Law“. Il cibo riporta anche all’infanzia, tema ricorrente nel suo cinema. “I miei genitori cercavano di costringermi a mangiare quello che non mi piaceva, le fave, per esempio. Già da bambino ho capito che attorno al tavolo si consumano le più grandi violenze, i momenti più falsi, ma anche quelli più autentici”.
Manca, nella clip di montaggio, una scena di Colpo d’occhio, il giallo ambientato nel mondo dell’arte contemporanea con Riccardo Scamarcio come suo giovane antagonista. “Ma in quel film il cibo era rappresentato senza la ritualità tutta meridionale, anzi era rifiutato, visto come qualcosa di negativo. In questa città si finisce sempre per vedersi a cena, diceva il protagonista un po’ stizzito”. Ma si torna, necessariamente, a parlare di Puglia, anche istigati dal menù: “Oggi, con Nichi Vendola, va di moda e siamo sotto i riflettori, ma credo che dovremmo darci da fare, andare oltre la facciata. A volte la troppa simpatia per un Sud fatto di macchiette e camorra mi insospettisce e mi sembra quasi da leghisti…”. Odio-amore per la sua terra, che gli fa chiudere con una battuta: “Se il Petruzzelli fosse stato un ristorante l’avrebbero ricostruito in due giorni”.
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